Sindrome della capanna: è vero che i bambini non ‘sopportano’ più il sole?
Secondo gli psichiatri oltre un milione di italiani teme il ritorno alla normalità. O meglio: alla “nuova” normalità di “convivenza” con il coronavirus. Quella che in tanti stanno sperimentando ha un nome ben preciso: “sindrome della capanna” e coinvolge anche i bambini. Dopo diverse settimane chiusi in casa a causa del lockdown, le quattro mura domestiche sono diventate il rifugio per eccellenza, il luogo in cui trovare riparo rispetto a una minaccia subdola e invisibile come il virus.
Il meccanismo che si è innescato nella mente di milioni di persone in tutto il mondo, bimbi compresi, fa sì che le persone rifiutino la realtà del mondo esterno preferendo una routine fatta magari di monotonia, ma certamente più sicura per sé e i propri “affetti stabili”, volendo utilizzare una terminologia molto diffusa di questi tempi.
Sindrome della capanna: a rischio anche i bambini
Alcuni genitori avranno osservato in questo periodo una particolare reazione dei propri figli ai raggi del sole. Quasi una condizione di paura, di disagio, per quella che fino a poco tempo fa sembrava essere una delle attività preferite dai bambini: stare all’aria aperta. Ecco uno degli effetti collaterali del coronavirus: attenti osservatori quali sono, i figli piccoli hanno captato le paure (comprensibili) dei genitori durante il lockdown, le hanno fatte proprie e le hanno elaborate trincerandosi all’interno di una “capanna” immaginaria all’interno della quale custodire ciò che hanno di più caro. Si capisce bene, però, che una vita del genere semplicemente non è vita.
Sindrome della capanna: come intervenire e quando preoccuparsi
La parola d’ordine per affrontare questa problematica dev’essere dunque “gradualità“. In un primo momento i genitori possono decidere di portare il bambino a giocare in cortile o passare del tempo con loro sul terrazzo: così facendo, dopo un periodo di “ambientamento”, i piccoli si renderanno conto che il mondo esterno non è un pericolo per la salute a prescindere, ma solo se si violano le norme di buon senso che abbiamo imparato a conoscere. Se un po’ di paura è comprensibile, soprattutto nella prima fase della ripartenza, allo stesso modo sentimenti come ansia e angoscia che dovessero prolungarsi per un periodo superiore alle tre settimane potrebbero nascondere una problematica da sottoporre all’attenzione di uno specialista per evitare che sfocino in veri e propri disturbi.